Collezionare noi stessi

Le collezioni d’arte, quelle storico-etnografiche, naturalistiche o dedicate a una specifica tipologia di beni conservano nel tempo uno stretto legame con il collezionista, un insieme affascinante di storie, esperienze e saperi che rischia di andare perduto quando il collezionista non c’è più.

Il collezionista ha un rapporto molto profondo con le cose tanto da non metterne in risalto il valore funzionale, ossia la loro utilità, la loro adoperabilità, ma le studia, le ama, se ne prende cura come parti integranti della sua casa, ne conosce le biografie più intime.

Tutto ciò che è ricordato, pensato, saputo diventa basamento, cornice, piedistallo, chiavistello. Epoca, paesaggio, impresa, proprietario da cui proviene: tutte queste cose, per il vero collezionista, si uniscono insieme in ogni singolo pezzo della sua proprietà fino a diventare un’enciclopedia magica. Basti osservare un collezionista e il modo in cui maneggia gli oggetti della propria collezione. Appena li tiene in mano, sembra guardare ispirato attraverso di essi, nella loro lontananza.

Per il vero collezionista il possesso è il rapporto più profondo che si possa avere in generale con le cose: non che esse siano viventi in lui, è egli stesso ad abitare in loro. Nel bambino questa tendenza emerge spontaneamente: non è insolito trovare un ragazzino che conserva accuratamente le foglie degli alberi, le conchiglie raccolte durante una vacanza al mare, oggetti dalle forme particolari. Il loro desiderio di raccogliere risponde al bisogno di ordinare il mondo in categorie.

Collezionare appare un’arte di vivere fortemente associata alla memoria, al salvataggio dell’ordine dal disordine. In questi piccoli rituali osserviamo l’inizio di un’ossessione, un esercizio su come appropriarsi del mondo, raccogliere le cose attorno a sé in modo accurato. In ogni collezione però le inclusioni e le esclusioni seguono delle regole culturali, di genere e di estetica. Così l’io che deve possedere a tutti i costi ma che non può avere tutto, impara a scegliere, ordinare, classificare secondo precise gerarchie: a fare “belle” collezioni.

Se un bambino colleziona foglie e conchiglie, prima o poi, sarà incoraggiato a riporre la propria raccolta in uno scaffale o in un’apposita scatola o ad allestire uno spazio e i tesori personali diventeranno così pubblici. 

In Occidente il collezionismo è stato per tanto tempo una strategia del dispiegamento possessivo dell’io, della cultura, dell’autenticità; nel XVII secolo emerge il pensiero di un io ideale come proprietario: l’individuo circondato da proprietà e beni accumulati. Susan Stewart nella sua grande ricerca On Longing: Narratives of the miniature, the Gigantic, the Souvenir, the Collection (1984), offre una chiara spiegazione su come le collezioni – segnatamente i musei – creino l’illusione della rappresentazione adeguata del mondo, separando gli oggetti dai loro contesti di appartenenza, cosicché la realtà della collezione stessa si sovrapponga alla narrazione dell’oggetto.

Il saggio della Stewart mette in evidenza come mostre e collezioni siano processi cruciali nella formazione dell’identità occidentale. Nel quadro della nuova percezione del rapporto fra Europa e resto del mondo sorta nel corso dell’età rivoluzionaria e napoleonica si sviluppò una serie di rappresentazioni che presupponevano l’inferiorità dei non-europei, poichè insediati al di fuori del continente europeo, e rimasti, secondo l’ideologia del tempo, ad uno stadio arretrato della scala evolutiva biologica e sociale.

La colonizzazione viene dunque giustificata con una presunta “missione civilizzatrice” verso i popoli non occidentali. Gli artefatti raccolti da coloro che possedevano grandi disponibilità economiche, e spesso anche grande potere, dai nobili che avevano la possibilità di viaggiare, dai monasteri che erano anche luoghi di civiltà e cultura, non sono altro che oggetti-curiosità ottenuti dai numerosi viaggi di esplorazione in quei territori dove erano venuti ad accentrarsi interessi commerciali o coloniali.

Grazie a queste raccolte è stato possibile organizzare vere e proprie stanze delle meraviglie, le wunderkammer, contenenti oggetti che destavano meraviglia. Erano infatti conservati reperti naturali (piante essiccate, animali impagliati, minerali) accanto ad oggetti d’arte, strumenti scientifici, oggetti di interesse etnografico, apparentemente ammassati senza alcun criterio, quasi un mix di fatti e finzione. Scopo del collezionista era quello di riuscire ad impossessarsi, talvolta pagando cifre molto cospicue, di oggetti straordinari. Poiché però tutti questi oggetti avevano un prezzo ingente, possedere una Wunderkammer degna di essere mostrata agli amici e agli illustri visitatori non era un fatto molto comune: generalmente averne una era, come citato sopra, privilegio di re e nobili, di emeriti scienziati e di uomini dotti e ricchi, di conventi e monasteri.

L’accumularsi di questi oggetti nelle Wunderkammer diede luogo, verso la fine del XVIII secolo, alla costituzione di veri e propri musei, allorché i monaci delle abbazie o i possessori privati di camere delle meraviglie decisero di ordinare e catalogare la quantità incredibile del materiale raccolto e di consentirne, sia pure con molta iniziale cautela, la fruizione al pubblico. Solo nella prima metà dell’Ottocento si impone una concezione di museo etnografico che rispecchia i criteri base dei musei etnografici del secolo XXI: un museo in cui sono istituzionalmente conservati, studiati ed esposti gli oggetti e ordinati secondo determinati criteri. 

Serena Palmese
Fonte copertina Pixaby

Vedi anche: http://www.ilcaffesospeso.net/2021/07/30/museo-piu-di-unosservazione-cieca/