“Non girarti, sono ovunque!”

Nella diffusione ormai virale del prodotto on demand, spesso si rischia di cadere anche nel paradosso di un prodotto che ha nella sua genesi intenzioni individualizzanti ma che diventa, in alcuni casi, megafono mediatico.

Due film che portano il marchio del colosso Netflix e che per modalità di presentazione e potenza narrativa sono stati capaci di scuotere reazioni discordanti tra gli addetti ai lavori e pubblico, ma anche capaci di divenire poli aggregativi di consensi nell’epoca che indurrebbe sempre più ad alienare lo spettatore nella comfort zone della sua visione individualizzata.

Il primo caso è quello legato al film Sulla mia pelle di Alessio Cremonini.

«Il 12 settembre è uscito nelle sale cinematografiche con Lucky Red e su Netflix il film che racconta gli ultimi giorni di vita, quelli della detenzione, di Stefano Cucchi. Si tratta di un film penetrante a più livelli e si dovrebbe parlare tanto del suo essere un ottimo racconto cinematografico. La discussione si è invece spostata anche su un altro piano. È giusto fare uscire un film in contemporanea al cinema e su una piattaforma online? Chi avrà la meglio? Il cinema ha paura di Netflix? Il dato più interessante è numerico. Sulla mia pelle, interpretato da Alessandro Borghi, ha incassato il primo giorno 43.368 euro circa ed è stato visto, sempre al cinema, da oltre 7mila persone. Forse non tutti sono “scappati” dalla sala come ci fanno credere.

E se fosse Netflix ad avere riavvicinato tantissimi spettatori al cinema (in senso generale)? Per diverso tempo lo streaming selvaggio, e molte volte “piratato”, ha sostituito la sala cinematografica, quella sala che il pubblico ha boicottato, in primis per l’aumento del costo del biglietto, eppure i blockbuster continuano a esistere e ad aggiornare periodicamente i record d’incassi».

Paolo Mereghetti ci parla di Netflix come tempesta pronta a scuotere il cinema italiano e proprio in riferimento al film di Cremonini Sulla mia pelle, il film sul caso Cucchi che il coproduttore italiano Lucky Red, dopo averlo venduto alla piattaforma americana, aveva deciso di distribuire ugualmente nei cinema, in contemporanea con la diffusione in streaming.

«Quasi tutto il cinema nazionale aveva protestato perché così non si rispettava più la tradizionale successione di visione (prima la sala, poi il dvd, poi le televisioni a pagamento e infine quelle free), costringendo l’amministratore delegato della Lucky Red, Andrea Occhipinti a dare le dimissioni dalla presidenza dei distributori italiani. (C’era anche un’altra ragione di malcontento: il fatto che il film avesse ricevuto i contributi come opera cinematografica quando la vendita a Netflix l’aveva poi «derubricato» a opera audiovisiva, cui sarebbero spettati altri, e minori, tipi di finanziamenti. Ma questo c’entrava poco con la «polemica Netflix» e si diceva solo a denti stretti). Piuttosto andrebbe ricordato che nonostante la disponibilità in streaming e le numerose proiezioni «militanti» (spesso pirata), il film ha incassato a tutt’oggi circa 560mila euro, più di moltissimi film italiani».

La pellicola infatti si è fatta emblema di un movimento dal sottosuolo che ha scardinato i canoni di fruizione individuale diventando neo-fenomeno di aggregazione di targa on demand.

Caso analogo, ma in proporzioni ancora più globali, è quello del film Roma del regista messicano Alfonso Cuaron che ha vinto il Leone d’oro a Venezia 2018, un premio storico perché il primo assegnato ad un film prodotto dal colosso dello streaming Netflix. Film ambientato nella Città del Messico degli anni ‘70 e girato con tutta la potenza evocativa del bianco e nero.

Inizialmente per la pellicola era prevista una proiezione nei cinema di tutto il mondo per un solo weekend, con un numero molto alto di sale (circa 600 in tutto il mondo) hanno potuto lasciare il film nella loro originaria programmazione, con l’unica condizione, imposta da Netflix era di non divulgare informazioni sui ricavi al botteghino. La pellicola, quasi in contemporanea, è stata resa disponibile sulla piattaforma a partire dal 14 dicembre, solo undici giorni dopo l’uscita al cinema.

Si riaggancia poi Mereghetti con il suo articolo: «perdono forza le ragioni di chi difende a priori la primogenitura della sala. A giustificare il rifiuto della programmazione (pare arrivando anche a minacciare boicottaggi verso i distributori che se ne fossero fatti tramite: ma qui come sempre nessuno vuole confermare quello che nel settore in molti dicono) è evidentemente la paura di Netflix come di un sistema di “distribuzione cinematografica” che salta la sala e arriva direttamente in casa dei potenziali spettatori (e a un prezzo decisamente competitivo). Di fronte allo strapotere economico del canale in streaming, gli esercenti non si accontentano nemmeno delle regole che loro stessi hanno firmato un mese fa (e che nulla potrebbero contro i film non italiani): dietro quelle uscite “tecniche” in sala vedono solo un modo per promuovere l’offerta Netflix. Proseguendo con un parallelismo con la Francia, dove il cinema va molto ma molto meglio che in Italia (parlo di presenze e incassi), il braccio di ferro continua, anche se incominciano a vedersi i primi possibili accordi (riduzione delle «finestre» in cambio della partecipazione ai contributi per la produzione cinematografica, come hanno accettato di fare gli altri player del settore). Ma in Italia? Il caso Sulla mia pelle dovrebbe aver insegnato che per certi film — non tutti, ma alcuni sì — la programmazione in sala non soffre la concorrenza della diffusione in streaming e coi chiari di luna che sta attraversando il nostro cinema (le previsioni parlano di un anno ancora peggiore del 2017. E senza nessun San Zalone all’orizzonte), con un pubblico sempre più ridotto, certi film potrebbero essere un aiuto e non un ostacolo».

Rimane quindi scindibile un discorso di scelta tra la comodità di fruizione geo-localizzata e l’esteticità di una scelta che comporta la suggestione della sala cinematografica.

«Solo al cinema – prosegue Mereghetti – può essere apprezzato in tutta la sua bellezza Roma, la bellezza che gli ha fatto vincere il Festival di Venezia. Girato in 65 mm (per aumentare la definizione dell’immagine: al Lido, il regista ha preteso che fosse proiettato su pellicola, non col supporto digitale), fotografato in un bianco e nero luminoso e ricercatissimo, solo su grande schermo può mettere in mostra tutte le sue qualità, i suoi sontuosi movimenti di macchina, la straordinaria profondità di campo, la ricchezza della sua ricostruzione storica. Se c’è un film che al cinema trova la sua collocazione ideale quello è proprio Roma e se Cuarón ha accettato di produrlo con Netflix è perché nessun’altro era disposto a investire così tanto e per così lungo tempo (solo le riprese sono durate cento giorni) per un film così poco commerciale. Un discorso che hanno ripetuto anche i fratelli Coen (a un western a episodi come La ballata di Buster Scruggs pensavano da vent’anni ma nessuno voleva finanziarlo, finché non è arrivato Netflix) o Martin Scorsese (per The Irishman, adesso in post-produzione) e che rischieremo di sentire ancora molte volte nei prossimi tempi».

Alle conclusioni di Mereghetti, che offrono la possibilità di una scelta consapevole posta su due orizzonti diversi, preferiamo concludere, in maniera conciliante e integrativa che «Netflix apre possibilità fino ad ora inimmaginabili, andando a colmare quel gap che la televisione di ‘una volta’ creava, con pellicole che talvolta impiegavano anni ad arrivare finalmente sul piccolo schermo, spesso in fasce orarie impossibili. Allo stesso tempo, gli affezionati al grande schermo, che non vogliono rinunciare all’esperienza del cinema e che hanno tutti i mezzi per farlo, possono armarsi di popcorn e godersi una pellicola imperdibile, nella comoda poltrona della loro sala preferita. Forse, è il caso di dire che per stavolta sembrano aver vinto proprio tutti».

Serena Palmese
Fonte copertina fanpage.it