Solidarietà, un sogno che si chiama Nutriafrica

L’Associazione di volontariato nata per volere del prof. Armini che coltiva un progetto di sviluppo e sostenibilità

Vincenzo Armini viaggia con un bagaglio di sogni e progetti da realizzare e il più speciale di tutti si chiama “NutriAfrica”, l’Associazione di Volontariato nata per suo volere nel dicembre 2016.

Docente di Scienze degli Alimenti, nonché Dottore di Ricerca in Scienze Agrarie e Agroalimentari, Vincenzo promana tutto l’entusiasmo delle sfide che, grazie al suo impegno e quello di molti volontari, diventano possibili, e “NutriAfrica” ha tutte le carte in regola per essere una sfida vincente.

Un progetto straordinario che affonda le sue radici nel nobile intento di aiutare gli altri e giunge prorompente fino al continente nero. Un disegno iniziato 14 anni fa, che racconta storie belle dal 2006, l’anno in cui il prof. Armini si è iscritto alla Croce Rossa, esperienza che gli ha consentito di apprendere i meccanismi che sono alla base del volontariato.

Quattro anni più tardi il primo traguardo di questo sogno-progetto è raggiunto con la Laurea Triennale in Tecnologie Alimentari presso il Dipartimento di Agraria dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, con tesi compilativa sui Ready-to-Use Therapeutic Foods (RUTFs), alimenti speciali per la cura della malnutrizione infantile nei Paesi in via di sviluppo, per raggiungere, nel 2013, la completezza dell’opera con la Laurea Magistrale con tesi sperimentale sullo sviluppo di RUTFs alternativi, agevolmente riproducibili nei Paesi in via di sviluppo, contro la malnutrizione infantile.

La vera genesi del progetto, tuttavia, risale ai tempi del dottorato, durante il quale il prof. Armini approfondisce e completa la ricerca iniziata qualche anno prima.

“Il progetto prevedeva l’ideazione di una crema alimentare, capace di curare, con l’impiego di ingredienti facilmente reperibili sul posto, la malnutrizione infantile nei Paesi in via di sviluppo; l’obiettivo principale era la costruzione di un impianto in loco. Purtroppo, però, l’Università non disponeva dei fondi per completare l’ultima – e forse più importante – parte del progetto. Ciò è stato determinante per “NutriAfrica”, perché per sbloccare la situazione ho deciso di raccogliere i fondi autonomamente.”

Vincenzo perché pensi che la crema ideata da te sia diversa dalle altre?

“La crema già esiste, è già utilizzata come soluzione al flagello della malnutrizione infantile. Il problema è che questa crema viene prodotta nei Paesi avanzati e, solo successivamente, trasportata nei Paesi in via di sviluppo. Il mio obiettivo è la produzione della crema direttamente in loco per sfruttare risorse locali. La peculiarità del progetto sta proprio in questo, e tutti coloro che lo abbracciano condividono con me il pensiero che le logiche assistenzialistiche non possano risolvere definitivamente il problema, ma possano solo tamponarlo provvisoriamente. Per non contare, poi, che anche l’impatto ambientale sarebbe diverso: meno sfruttamento dei sistemi di trasporto, meno costi di produzione.”

Puoi svelarci gli ingredienti della crema?

La crema è composta da soia e sorgo che, come il miglio, è un cereale molto diffuso in Africa; si tratta di cereali che per la loro coltivazione necessitano di ridotti quantitativi d’acqua. Gli altri composti sono: zucchero di canna, olio di girasole e spirulina. La combinazione di questi ingredienti consente ai bambini malnutriti di recuperare peso in un periodo di tempo che va dalle 6 alle 8 settimane, purché, però, non presentino complicazioni cliniche. Discorso diverso, invece, per chi ha un quadro clinico compromesso e per cui è necessaria la ospedalizzazione. Ad un’attenta analisi, quindi, intuiremo che questo trattamento consente, tra l’altro, di evitare l’affollamento degli ospedali, consentendo una discriminazione tra bambini meno gravi, per i quali è previsto un trattamento domiciliare, e quelli invece con complicanze, che possono così usufruire di un miglior servizio ospedaliero. Inoltre, si è dimostrato che l’evitato allontanamento da casa consente un recupero psicofisico più veloce. Ribadisco che anche le altre creme commerciali hanno queste caratteristiche e scopi, ma l’innovazione del nostro prodotto sta nel fatto che per la sua realizzazione vengono utilizzati esclusivamente ingredienti locali, con un abbattimento notevole dei costi. E come se ciò non bastasse, con una rete di piccoli impianti autonomi si può dare lavoro e occupazione alla gente del posto.

Come inizia questa avventura?

Abbiamo iniziato con 0. All’inizio sono stati organizzati piccoli eventi come cocktail, incontri e dibattiti su piccola scala, che coinvolgevano poche persone su Portici. Successivamente, abbiamo creato il nostro sito nutriafrica.org e fatto la sponsorizzazione sui canali social, estendendo il nostro raggio di azione. Siamo stati a Roma, a Venezia, a Novara.  In particolare, di quest’ultima città ho un ricordo speciale: qui è dove abbiamo conosciuto Claudia, una ragazza che ha deciso di aderire all’Associazione, grazie alla quale siamo riusciti a organizzare un incontro molto proficuo. Attualmente “NutriAfrica” conta 55 soci, decine di simpatizzanti che danno una mano e molti donatori.

Per chi volesse donare?

Per la donazione è possibile andare su www.nutriafrica.org, alla sezione “Dona Ora”. Per diventare soci invece basta aderire alla campagna di tesseramento, in futuro prevediamo di implementare la sezione on line con metodi di adesione telematici.

Qual è secondo te il miglior metodo di diffusione e sensibilizzazione del progetto?

Essendo insegnante alle scuole superiori, succede che i miei studenti si accorgano di “NutriAfrica” googlando il mio nome. Sono incuriositi dal progetto, sensibilizzarli è fondamentale; in questa epoca così liquida dove tutto è rappresentato virtualmente la reale testimonianza è uno strumento potentissimo. Personalmente, non sono d’accordo con chi sostiene che il bene si faccia ma non si dica: non si dice in termini di esibizionismo o spettacolarizzazione, ma bisogna comunicarlo, renderlo noto, certo con sobrietà, per essere testimonianza e generare preziosi circoli di solidarietà.

Quanto lontana vedi la realizzazione del progetto?

All’inizio di questa avventura, tantissimo. Oggi questo progetto lo ritengo più concreto, fattibile. In tre anni abbiamo raccolto 40 mila euro, l’obiettivo è 50 mila. Non mi aspettavo un risultato simile!

Cosa succede a raggiungimento della quota?

A raggiungimento di 50 mila verranno acquistati i componenti dell’impianto e spediti in Uganda, dove insiste una partnership universitaria tra Federico II e Gulu; l’obiettivo è costruire l’impianto pilota all’Università di Gulu, per avviare sperimentazioni in quella regione dell’Africa.

Cosa ti spinge a fare ciò che fai, qual è il mordente?

Questa è una domanda che mi hanno posto spesso, alla quale rispondo sempre allo stesso modo: una profonda indignazione nei riguardi delle ingiustizie e disuguaglianze, per lo smisurato divario tra chi ha e chi non ha. Sono convinto che sia una nostra responsabilità ridurre queste differenze. In Europa il 60 % del cibo che viene prodotto finisce in pattumiera, in USA il 50%. È un dato che trovo vergognoso, soprattutto se consideriamo i decessi che avvengono ogni anno per fame. Ho anche un’altra motivazione, che è di tipo professionale: ritengo che il mestiere del tecnologo alimentare non possa e non debba essere incentrato solo sul profitto dell’industria alimentare, ma debba focalizzarsi sull’aspetto etico, connesso alla produzione e disponibilità degli alimenti, che sono come l’acqua: un bene primario. Per cui, la logica del profitto così intensa la considero eticamente scorretta.

C’è qualcuno a cui ti senti di dover dire grazie?

Certamente! Ringrazio tutti coloro che hanno la capacità di sognare, che condividono il mio sogno, che è, come il loro, sovvertire le regole del gioco.

E noi invece diciamo grazie a te per aver condiviso tanto coraggio!