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Lo sport discutibile del razzismo

Un detto popolare dice: “La mamma dei cretini è sempre incinta”. E noi aggiungiamo: “anche la mamma dei razzisti lo è!”

Perché, alla soglia del 2020, episodi al limite tra l’intolleranza e la stupidità ne sentiamo davvero spesso. Anche il 26 dicembre, giorno di Santo Stefano, quello che segue la festività del Natale, della famiglia, degli amici, dello stare insieme ma, anche, della generosità, della bontà, del calore e dell’affetto, e … del campionato di serie A! Proprio il 26 dicembre durante la partita Inter- Napoli, il difensore senegalese della squadra partenopea Kalidou Koulibaly fu espulso per aver applaudito sarcasticamente nei confronti dell’arbitro.

Motivo? Secondo il calciatore il direttore di gara, non fece granché contro i cori razzisti da lui subiti da un gruppo di tifosi interisti. La SSCN, cominciando dall’allora allenatore Carlo Ancelotti, solidarizzò con Koulibaly, prendendo le sue difese, specificando che fu richiesta per ben tre volte la sospensione della partita quando, invece, gli unici interventi messi in atto non furono che dei semplici richiami all’ordine da parte dello speaker. Prese di posizione che non portarono ad alcun risultato; anzi, il Giudice Sportivo squalificò per una giornata sia Koulibaly per l’ “ironico applauso”, che Insigne per gli insulti nei confronti del Direttore di Gara.

Tuttavia, seppur amara, una consolazione ci fu perché l’Inter giocò per due gare senza pubblico. Le organizzazioni calcistiche internazionali combattono da diversi anni la piaga del razzismo nei campi da calcio come l’UEFA – che ha sempre ribadito che le partite devono essere sospese in caso di cori ed atti razzisti da parte sia dei tifosi che dei calciatori stessi – e la FIFA, la quale è severamente impegnata in una campagna di sensibilizzazione e promozione antirazzista a livello globale; Cristiano Ronaldo, Leo Messi e Gerard Piqué ci hanno messo la faccia ed anche il cuore in questa battaglia.

Eppure, tutto questo, sembra non bastare. Rimanendo nel nostro Belpaese, il 22 ottobre 2018, in occasione della partita Lazio – Cagliari, alcuni tifosi laziali affissero, all’interno della curva romanista, la foto della giovane ragazza ebrea – deportata e morta ad Auschwitz – Anna Frank, con addosso maglie di diverse squadre di calcio, Roma in primis. Davanti a tali eventi è difficile stabilire se si tratti di incitamento all’odio razziale o di un atto di mera e pura ignoranza; i 14 tifosi fermati dalla Polizia, davanti al giudice, si giustificarono dichiarando di averla scambiata per Mariangela, la figlia di Fantozzi: una risposta che riesce a suscitare, insieme, rabbia, ilarità, sbigottimento.

Andando a ritroso con gli anni, come non dimenticare la partita amichevole del 3 gennaio del 2013, Pro Patria – Milan, in cui Kevin Boateng è stato il protagonista, e non certo per i suoi gol: insultato ripetutamente per il colore della sua pelle, lanciò il pallone contro la rete di protezione che divide gli spalti dal campo, si tolse la maglia e lasciò il campo, accompagnato da tutti i suoi compagni di squadra, come manifestazione di solidarietà e protesta; ancora, il 17 ottobre del 2010, Samuel Eto’o, in Cagliari – Inter, venne preso di mira con dei “buu” da parte di alcuni tifosi, ai quali egli rispose con l’imitazione di una scimmia.


Di episodi come quelli citati se ne possono trovare tantissimi tra le pagine della cronaca sportiva, che, probabilmente, potrebbe catalogare come “caso zero” il celebre episodio del mancato saluto, da parte di Adolf Hitler, all’atleta nero statunitense Jessie Owens: vincendo la medaglia d’oro, il maratoneta smontò, alle Olimpiadi di Berlino del 1936, la veridicità della teoria della supremazia ariana.

Tutto ciò dovrebbe farci comprendere due cose fondamentali: la prima è che sarebbe necessaria una rieducazione sportiva, nella quale si facciano comprendere i fondamenti dello sport – inclusione, partecipazione, diversità, competizione, rispetto – ed il significato di un “tifo sano”, basato sul supporto alla propria squadra o al proprio beniamino del cuore e mai sulla denigrazione degli avversari; la seconda cosa, invece, riguarda il ruolo incisivo che dovrebbero avere le società sportive, le federazioni, gli arbitri concentrati solo ed esclusivamente sui risultati, sui bilanci e molto meno sul mantenere alti i valori e gli ideali dello sport.

Per mantenere la fiducia e la speranza per gli anni a venire, bisogna focalizzarsi sulle risposte esemplari che sono state date per estirpare questa piaga. Il 27 maggio 2001, nella partita Ternana- Treviso, il nigeriano Akeem Omolade, fu denigrato con striscioni infamanti; nella partita successiva, i suoi compagni si presentarono con il volto nero. Infine, per ricordare che anche l’omofobia è una forma di razzismo, in risposta al calciatore del Barcellona Gerald Piqué il quale sostenne che “è impossibile fare coming out nel mondo del calcio”, nel 2017, il calciatore inglese del Torquay United, Liam Devis, dichiarò la sua omosessualità esortando gli altri calciatori gay a fare lo stesso e diventando il testimonial della campagna della Uefa “Equal Game”, contro ogni discriminazione basata sulla disabilità, sulla differenza etnica, sull’orientamento sessuale e sul proprio credo religioso.