Discriminazione ed Aids le punte di un iceberg. Con Netflix puoi vivere la storia del mondo LGBTQ.
Scoprire di essere transgender o gay negli anni ‘60 per molti significava scappare di casa o affrontare il rifiuto della famiglia. Così, in tanti decidevano di cominciare la nuova vita in una città lontana. Una metropoli che potesse dar loro l’illusione di mescolarsi agli altri. Illusione poiché erano destinati ad aggressioni, spesso mortali, e a svolgere lavori lontani dalla luce del sole. L’unico spiraglio di vita erano le ballroom: competizioni a cui chiunque poteva partecipare, della comunità LGBTQ e non. Sfilate e gare di ballo, non solo.
Con la categoria “realness” ci si poteva immedesimare in uomini d’affari, mogli e mariti, studenti universitari. Oggi probabilmente una tale esibizione non avrebbe senso. Ma al tempo ammettere a se stessi e al mondo di essere gay o trans significava rinunciare immediatamente all’idea di avere un ruolo riconosciuto e rilevante nella società. Sembrare credibili in quei ruoli voleva dire sentirsi autentici, anche se per pochi minuti.
Negli anni ’80 le cose non erano cambiate (nonostante il notevole contributo apportato dalle varie rivolte negli anni passati, tra cui i moti di Stonewall del’69). L’avanzare inesorabile delle vittime di Aids rappresentava una nuova devastante calamità. Con queste premesse comincia la serie Pose, distribuita da Netflix che da poco ha rilasciato la seconda stagione in Italia.
Protagonista indiscussa è la ballroom newyorkese degli ‘80 e ‘90, che accoglie in modo particolare latini e afroamericani. Nel corso degli episodi, Blanca si fa spazio a Harlem lottando per la conquista della dignità. Riesce ad avere una sua casa, nella quale riunirà diversi ragazzi gay e trans rimasti senza famiglia e lavoro. Blanca non è l’unica. Il meccanismo dietro le ball è proprio la sfida tra “case”. Ogni casa ha una madre che guida i più giovani, oltre che nelle gare, nel destreggiarsi tra il sogno di indipendenza e il riuscire ad essere fieri di se stessi, nonostante le ostruzioni della società.
Ideata dagli autori di American Horror Story, la serie vanta un certo realismo. Si ispira infatti al manifesto della ballculture: il docu-film Paris is Burning, di Jennie Livingston. Quasi tutte le donne trans apparse nel documentario sono morte poco dopo.
Dall’82 ad oggi le persone morte di Aids sono circa 35 milioni. Oggi sappiamo che chiunque non usa il preservativo è esposto al contagio, a prescindere da sesso ed orientamento sessuale. All’inizio dell’epidemia era diffusa la convinzione che le vittime fossero esclusivamente gay e transessuali. Tale convinzione, dovuta alla poca conoscenza della malattia, venne rafforzata dalle campagne pubblicitarie poco chiare.
Quando non morivano di Aids, le vittime venivano picchiate a sangue, spesso fino alla morte, come sucesso a Angie Xtravaganza, donna trans apparsa nel documentario della Livingston.
Non è stata ancora trovata una cura per l’Aids, ma se diagnosticato in tempo, il contagio da Hiv si può rallentare o impedire l’innescarsi della sindrome da immunodeficienza acquisita che questo comporta. L’Aids oggi è un problema di tutti, soprattutto a causa della recente scoperta di un nuovo ceppo di Hiv, primo in 19 anni.
Oggi per fortuna non si può più parlare di ghettizzazione LGBTQ. L’orientantamento sessuale in tanti paesi non è più un limite e un numero sempre maggiore di transessuali riesce a raggiungere anche posizioni di spicco nella società. L’atleta Jaiyah Saelua, la ceo Martine Rothblatt, l’attrice Laverne Cox e la scrittrice Janet Mock sono solo alcuni esempi.
Sono davvero lontani i tempi in cui, per diventare famosa nel 1970, la modella transessuale Tracey Norman, ha dovuto nascondere la sua natura. Il coming out che avvenne alcuni anni dopo segnò la fine della sua carriera.